CONVENZIONE DI ISTANBUL: 11 ANNI DOPO

Prevenzione, contrasto della violenza contro le donne e istituzione di nuove forme legali per tutelarle.

CONVENZIONE DI ISTANBUL: 11 ANNI DOPO

Era l'11 maggio 2011 quando 45 paesi europei firmarono a Istanbul la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota come Convenzione di Istanbul.

Ma da allora cosa è cambiato?

Da anni assistiamo ad un endemico e grave dilagare di episodi di violenza contro le donne. Un fenomeno più diffuso di quanto comunemente non venga alla luce e consumato, nella maggior parte dei casi, all’interno di un contesto affettivo/relazionale - coppia e/o famiglia - che, invece di offrire amore e protezione, diventa per la donna un luogo di abuso e prevaricazione.

Un fenomeno trasversale rispetto a scolarità e classi sociali - caratterizzato dalla ripetizione e dall’esercizio contestuale di tipi diversi di violenza, (fisica, psicologica, sessuale, economica) - che chiama in causa la responsabilità della società e addita una rete di complicità, spesso istituzionali, non solo per l’assenza e/o i ritardi nella messa a punto di adeguate misure legislative e preventive (sostegno e riparazione a favore delle vittime, rieducative sui violenti), ma anche per le dinamiche di occultamento, messe in atto per celare e normalizzare la violenza contro le donne, quando i casi vengono considerati  episodici ed individuali e ricondotti a raptus di follia, passione, devianza, gelosia, ecc.

Espressione di un fenomeno sociale e culturale, a lungo strumento di oppressione e controllo della società patriarcale, esito della disuguaglianza tra i sessi e dell’ineguale distribuzione del potere – come denunciato dal femminismo degli anni ’60 - la violenza contro le donne esplode in questa modernità attraversata da processi di scomposizione e di ricostruzione delle identità di uomini e donne, in continuo divenire e in continuo e dinamico confronto/scontro nel tempo, nei ruoli e negli spazi sociali, e configura una violazione dei diritti umani fondamentali.

Se in uno scenario di ruoli sessuali in mutamento l’intensità e la frequenza delle manifestazioni di violenza contro le donne,  espressioni di potere e controllo sul partner o ex partner, fanno emergere con evidenza il fenomeno  dal piano privato a quello politico, l’esercizio sistematico di violenze fisiche, psicologiche ed economiche, volto a ferire,  intimidire, terrorizzare, degradare, ricattare, soggiogare, brutalizzare, isolare e, nei casi estremi, ad uccidere, è fenomeno di sempre e va ricollocato all’interno di un continuum storico di pratiche oppressive contro le donne.

Dalla caccia alle streghe al suicidio delle vedove indiane, alla fasciatura dei piedi e all’aborto selettivo in Cina, alle sterilizzazioni forzate, alle mutilazioni genitali, alla acidificazione delle donne indù che rifiutano un matrimonio o non sono in grado di pagare una dote consistente, alla legalizzazione dello stupro del coniuge, al matrimonio riparatore e al delitto d’onore, al mobbing e alle molestie sessuali, dalla morte delle donne costrette a praticare l’aborto clandestino o perché l’aborto non è legalizzato o per l’obiezione di coscienza del personale medico preposto, dallo stalking allo stupro e al mobbing, fino ai femminicidio,  le infinite varianti della violenza contro le donne sono possibili solo in un contesto politico istituzionale che isola e abbandona, comprime se non ostacola le possibilità di autodeterminazione delle donne, tollera e riproduce modelli femminili di subordinazione e sottomissione alla posizione dominante maschile e, insieme, ricalca l’identità degli uomini, la mascolinità,  sulle componenti essenziali della dominanza, della forza, del controllo e dell’aggressività, sulle quali si è storicamente costruita.

Le istituzioni hanno un ruolo essenziale nel mantenere la violenza, attuando politiche discriminatorie che conservano lo status quo di disparità dei generi, cioè relazioni gerarchiche di potere imperniate su ruoli socialmente e politicamente costruiti, anche nella società occidentale, dove alla luce delle conquiste ottenute sembra più sfumata l’impronta maschile prevalente in tutti gli ambiti.

Perché cresca e si fortifichi una cultura della parità sostanziale, del rispetto della persona e della libertà dell’altro, senza i quali non può esservi giustizia, è necessario perciò che le istituzioni e tutta la società si mettano in discussione e soprattutto che gli uomini, autori principali della violenza contro le donne, si assumano la responsabilità di un cambiamento.

In questa direzione una lettura storica della mascolinità, attraverso l’analisi del corredo di valori, ideali e rappresentazioni della realtà, indissolubilmente legata alla dimensione del potere, può essere la via maestra per ridisegnare una identità maschile che collabori alla costruzione di relazioni di reciprocità e rispetto.

La violenza contro le donne è un ostacolo per lo sviluppo di una democrazia che aspira ad essere effettiva e paritaria.

Era l'11 maggio 2011 quando 45 Paesi europei firmarono la Convenzione di Istanbul. I dati riportano i numeri del cambiamento.  

Come riporta Amnesty International, una donna su cinque nell’Unione Europea ha subito qualche forma di violenza fisica e/o sessuale dal partner (attuale o precedente) dall’età di 15 anni.

La Turchia, primo paese ad avere firmato la Convenzione, è stato anche il primo ad uscirne, con un decreto presidenziale di Erdogan dello scorso 20 marzo, che segna il ritiro ufficiale del paese valido dal 1° luglio 2021. Quanto a femminicidi, la situazione turca è particolarmente preoccupante: secondo il “Male Violence Monitor” elaborato dall’agenzia di stampa turca specializzata in diritti umani “Bianet”, più di 339 donne sono state vittime di femminicidio nel 2021.

 

 

 

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