La morte violenta per proteggere la Trattativa Stato-mafia/49

Il massacro di Attilio Manca: un omicidio di Stato-mafia. 49^ PARTE/Continuiamo a pubblicare integralmente la nuova relazione sull'urologo siciliano ucciso da pezzi dello Stato, in collaborazione con Cosa nostra.

La morte violenta per proteggere la Trattativa Stato-mafia/49

«Mio figlio non voleva diventare il medico della mafia. Si è rifiutato ed è stato ammazzato.»

Angela Manca, WordNews.it, 2022 (Per approfondimenti CLICCA sul link a sinistra)

Hanno ammazzato una persona perbene perchè aveva riconosciuto il boss latitante di Cosa nostra. Lo hanno fatto nella totale impunità, grazie alle coperture istituzionali. Le stesse coperture che hanno utilizzato per versare fiumi di sangue. Da Portella della Ginestra (1947) in poi.

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LA MORTE VIOLENTA DI ATTILIO MANCA. La famiglia Manca, come tante altre famiglie italiane, merita uno spazio fisso sugli organi di informazione. Su queste vicende vergognose bisognerebbe aprire una "finestra" fino alla definitiva risoluzione del caso. Noi, insieme a pochi altri, ci siamo. E facciamo nostra la convinzione del poeta Pasolini. Continueremo a battere sempre sullo stesso chiodo. E, sicuramente, non ci fermeranno per stanchezza.

WordNews.it, 2022 (Per approfondimenti CLICCA sul link a sinistra)

 

- IL MASSACRO MAFIA-STATO: Attilio Manca è stato ucciso per coprire una latitanza

 

11. L’IPOTESI DEL CONTATTO TRA BERNARDO PROVENZANO E ATTILIO MANCA

11.1 La latitanza di Bernardo Provenzano nel messinese

Quanto alla figura di Michelangelo Alfano, per meglio comprenderne ruolo e posizione all’interno delle famiglie mafiose siciliane e, quindi, della verosimiglianza del racconto del Giuliano riguardo la possibilità che, effettivamente, un latitante della caratura criminale di Bernardo Provenzano potesse trovarsi in casa di Alfano, si ritiene utile riportare un estratto della relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia della XIV Legislatura.

«C’è un uomo simbolo al riguardo: Michelangelo Alfano. Questi, per tradizione familiare facoltoso imprenditore, in quel periodo si radicò a Messina, muovendo dalla sua città d’origine, Bagheria. E proprio nella famiglia bagherese di “Cosa nostra” militava già da lunga data Alfano. Il suo curriculum giudiziario segnala che egli già nel 1974 venne arrestato per il favoreggiamento della latitanza del noto Pietro Scaduto, appartenente alla famiglia di sangue che all’epoca dirigeva “Cosa nostra” a Bagheria.

Inoltre, una sentenza emessa nel dicembre 1996 dal Tribunale di Palermo, passata in giudicato, attesta che Michelangelo Alfano fu ritualmente affiliato quale uomo d’onore della famiglia bagherese. Quella condanna è stata pronunciata per il reato di associazione a delinquere semplice, solo perché relativa al periodo precedente l’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre che istituì la figura delittuosa dell’associazione di tipo mafioso.

(...)

L’analisi su Cosa Nostra messinese deve iniziare necessariamente dalla figura di Michelangelo Alfano, cui si è già accennato. Si è già detto come questi, uomo d’onore della famiglia di Bagheria, si trasferì a Messina negli ultimi anni Settanta. Ufficialmente imprenditore, era aggiu­dicatario dell’appalto per le pulizie dei mezzi delle Ferrovie dello Stato. Nei primi anni Ottanta entrò nella dirigenza della società calcistica A. C. R. Messina, della quale divenne presidente, accaparrandosi così grosse fette di consenso sociale e perfino le pubbliche lodi della stampa locale.

A margine delle sue attività ufficiali, si dedicò a sovrintendere le attività di Cosa Nostra, nel diretto interesse della famiglia di Cosa Nostra capeggiata da Leonardo Greco (Capomandamento di Bagheria).

Sul conto di Alfano, oggi sono davvero copiosi gli apporti cognitivi di innumerevoli pentiti. (...) A Messina Alfano creò intorno a sé una “oligarchia delinquenziale” funzionale agli interessi di Cosa Nostra, per utilizzare l’efficace espressione del Procuratore distrettuale di Messina. A tal riguardo, si mosse in due direzioni. Da un lato, egli nel tempo cooptò nell’area di Cosa Nostra alcuni ben selezionati esponenti di vertice delle cosche messinesi (caratterizzate, come detto, per l’assenza di uomini d’onore ritualmente affiliati a Cosa Nostra, che non aveva mai creato una famiglia in riva allo Stretto).

Fra questi, risultanze certe esistono in ordine a Domenico Cavò, Mario Marchese e Luigi Sparacio, che così furono chiamati a fungere da anelli di collegamento fra Cosa Nostra e i sodalizi malavitosi messinesi.

In tale ambito egli inoltre mantenne stretti contatti con gli esponenti di punta di Cosa Nostra catanese e con il noto Luigi Ilardo, personaggio su cui si tornerà e che fin dai primi anni Ottanta mise basi (insieme al fratello Giovanni, attualmente imputato ex art. 416-bis c.p. nel processo denomi­nato Mare nostrum) nella provincia di Messina.

In secondo luogo, Alfano, secondo risultanze svariate (ed in particolare secondo quanto si evince dalle emergenze del procedimento denominato Gioco d’azzardo, della Procura Generale di Reggio Calabria) si dedicò a creare o a foraggiare imprese, specie nel settore edile, con i proventi delle attività illecite di Cosa Nostra e a fornire copertura di ogni tipo ad imprese di altre province sponsorizzate da Cosa Nostra. Alla fine degli anni Settanta risale l’impo­nente speculazione immobiliare realizzata da imprese della provincia di Palermo riconducibili al gotha di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, Leonardo Greco, Mariano Agate, Salvatore Riina, Tommaso Cannella.

Si trattò dell’edificazione di un rilevantissimo numero di fabbricati di edilizia sovvenzionata. Il nome dato al complesso edilizio, “Casa nostra”, sembra un monumento alla trasparente mafiosità dell’operazione (di scadente qualità tecnica, vista l’inagibilità per il rischio di cedimento idrogeologico).In ordine a detta operazione, il processo avviato nei confronti di Alfano nel 1996 a Messina venne trasferito per competenza territoriale a Palermo e da ultimo a Catania dove ancora oggi è pendente.

Ma della presenza di “Cosa nostra” dietro quella speculazione edilizia vi era traccia evidente già nella sentenza del primo maxiprocesso palermitano, dove veniva sottolineata la presenza del nome di Saveria Palazzolo, moglie del boss Bernardo Provenzano, negli assetti societari di una delle imprese coinvolte. Nel mese di ottobre 1984 Alfano divenne latitante, essendosi sottratto all’esecuzione di un mandato di cattura a seguito delle dichiarazioni rese dal pentito Salvatore Contorno.

Si costituì spontaneamente solo nel 1988 e ottenne gli arresti domiciliari.

La sua posizione processuale fu definita nello stralcio denominato “Maxi-quater” nel dicembre 1996 (a quelle di Contorno, circa l’inserimento organico di Alfano in “Cosa nostra”, si aggiunsero le rivelazioni di Antonino Calderone, Francesco Marino Man­noia e Gaspare Mutolo), con l’esito che si è prima riportato. I quattro anni di latitanza per accuse così gravi non riuscirono ad intaccare il prestigio sociale detenuto da Alfano a Messina.

Le porte dei salotti buoni della città rimasero per lui aperte ed egli mantenne rapporti anche pubblicamente con l’elite politica, giudiziaria e imprenditoriale.

Negli stessi anni Alfano si rese responsabile, in qualità di mandante, del ferimento di un giornalista sportivo, Mino Licordari, episodio per il quale nel 2001 riportò condanna dal Tribunale di Messina. E si trova tuttora pendente innanzi al giudice perl’udienza preliminare di Messina il processo che vede Alfano responsabile dell’omicidio di tale Mommo Badessa, un esponente criminale in contrasto con “Cosa nostra” che venne assassinato a Messina nel 1984.

Ma il processo sicuramente più rilevante e dal quale sono venute le indicazioni più allarmanti circa il potere mafioso di Alfano è quello pendente innanzi al Tribunale di Catania, inizialmente avviato dalla Procura distrettuale antimafia di Messina con l’esecuzione dei provvedimenti di fermo eseguiti il 21 gennaio 1999 (cosiddetta operazione “Witness”) e poi trasferito nella città etnea per la connessione con la posizione di magistrati messinesi lì indagati. L’imputazione elevata ad Alfano è di essere stato il promotore a Messina, a partire dagli anni Ottanta, della diramazione locale di “Cosa nostra”.

Insieme a lui analoga contestazione, come promotori dell’asso­ciazione mafiosa, è stata elevata nei confronti di Santo Sfameni e di Luigi Sparacio (per quest’ultimo anche per un periodo nel quale assunse la veste di collaboratore di giustizia, al fine di garantire con le sue false dichia­razioni l’impunità dello stesso Alfano e di tutti i più importanti soggetti messinesi riconducibili a “Cosa nostra”, e nel far ciò godette di incredibili benefici grazie alla connivenza di personaggi istituzionali).

Coimputati di Alfano a Catania sono, fra gli altri, i magistrati Giovanni Lembo (già sostituto procuratore nazionale antimafia applicato alla Procura distret­tuale messinese) e Marcello Mondello (oggi in pensione, già capo dell’Uf­ficio GIP del Tribunale di Messina), i quali devono rispondere di concorso nella predetta associazione mafiosa.

Si tratta, a ben vedere, nella storia giudiziaria di Messina, del primo processo a “Cosa nostra” e il fatto che debba celebrarsi in altro distretto ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale, per il coinvolgimento di magistrati, dà il segno delle difficoltà con le quali le istituzioni dello Stato abbiano risposto all’assalto del crimine mafioso. La celebrazione di un simile processo in distretto giudiziario diverso da quello astrattamente competente per territorio rispetto alla res giudicanda amplifica naturalmente la difficoltà di rico­struire processualmente il quadro criminale e anche questo, senz’altro, ha contribuito al difetto di analisi sulla mafia messinese di cui si è parlato in premessa. Pure in questo senso, la celebrazione del processo contro Lembo+ 6 a Catania contribuisce ad evitare che la città di Messina faccia finalmente i conti con la permeazione che ha subito da “Cosa nostra”.

Altro procedimento penale pendente a carico di Alfano presso l’autorità giudiziaria di Palermo è quello relativo al reato previsto dall’articolo 12-quinquies, legge n. 356 del 1992 (interposizione fittizia) e che ne aveva determinato una nuova carcerazione (quella iniziata il 21 gennaio 1999 nell’operazione “Witness” e che aveva visto l’applicazione del regime detentivo previsto dall’articolo 41-bis o.p. era cessata nel dicembre 2000).

Alfano era tornato in libertà ma la Corte di cassazione il 17 novembre 2005 aveva emesso il provvedimento che avrebbe fatto rientrare Alfano in carcere. In tale frangente, la sera del 18 novembre Alfano è stato trovato cadavere in uno scenario che presenta gli aspetti obiettivi del suicidio.

Il boss si sarebbe sparato alla testa in un luogo isolato (parecchio distante dalla sua abitazione, però; e ad Alfano era stata ritirata la patente perché sottoposto a misura di prevenzione personale) con una pistola con matri­cola abrasa e nelle sue tasche sono stati trovati dei messaggi manoscritti che spiegherebbero le ragioni del gesto».

 

 

L'INTERVISTA ALL'ON. STEFANIA ASCARI 

Omicidio Manca: «In questa storia ci sono anche gli apparati deviati dello Stato»

L'INTERVISTA AD ANTONIO INGROIA

- CASO MANCA. Ingroia: «L'Antimafia ha fotografato i fatti acclarati: un omicidio di mafia e di Stato»

 

 

LE PRECEDENTI PUNTATE:

- La morte violenta per proteggere la Trattativa Stato-mafia/1

- La morte violenta per proteggere la Trattativa Stato-mafia/2 

- La morte violenta per proteggere la Trattativa Stato-mafia/3

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Il massacro di Attilio Manca: un omicidio di Stato-mafia

- Senso di rabbia ed indignazione

IL MASSACRO MAFIA-STATO: Attilio Manca è stato ucciso per coprire una latitanza

 

 

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ANTEPRIMA/1. Le parole della signora Manca (madre di Attilio): «Mio figlio non voleva diventare il medico della mafia. Si è rifiutato ed è stato ammazzato.»

 

IL CASO MANCA: vergogna di Stato

LA SECONDA PARTE (Video) IL CASO MANCA. Un Paese immerso nelle Trattative

- IL CASO MANCA, la seconda parte

Borsellino sul caso Manca: «Gli stessi assassini di mio fratello Paolo»

IL CASO MANCA, la seconda parte

IL CASO MANCA - Una storia tra mafia e Stato corrotto.

 

LA PRIMA PARTE (Video) Attilio Manca è Stato ucciso

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Morte di Attilio Manca, arriva l’assoluzione per Monica Mileti

Omicidio Attilio Manca: un pezzo di Trattativa Stato-mafia

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SECONDA PARTE. «Chi ha ucciso Paolo Borsellino è chi ha prelevato l’Agenda Rossa»

TERZA PARTE. Borsellino «L'Agenda Rossa è stata nascosta. E' diventata arma di ricatto» 

 

L'INTERVISTA al colonnello dei carabinieri Michele RICCIO

Prima parte: «Dietro alle bombe e alle stragi ci sono sempre gli stessi ambienti»

Seconda parte: Riccio: «Mi ero già attrezzato per prendere Bernardo Provenzano»

Terza parte: «Non hanno voluto arrestare Provenzano»

Quarta parte: Riccio: «L’ordine per ammazzare Ilardo è partito dallo Stato»